la prof.ssa Teresa Ribuffo vince a Paratissima il premio Nice Artists

L ‘ esposizione è stata curata dalla critica d’ arte Lara Caccia.

“Nell’appartamento conoscevo già tutti i nascondigli e vi facevo ritorno come in una casa in cui si è certi di trovare tutto come lo si era lasciato. Mi batteva il cuore. Trattenevo il respiro. Qui ero racchiuso nel mondo della materia. Mi diveniva straordinariamente chiaro, si accostava a me senza parole.”
 Sono parole che raccontano una parte del gioco a nascondersi scritte da Walter Benjamin nel suo libro Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Ad un certo punto dello scritto, l’autore dice di nascondersi dietro una portiera e si “racchiude nel mondo della materia”: il bambino si trasforma in qualcosa di “fluttuante e di bianco, uno spettro”.

L’artista Teresa Ribuffo sembra condensare l’esperienza della propria infanzia nella materia delle sue opere, nel delicato contrasto tra le ombre che fanno capolino tra le pieghe dei vestiti e il bianco intenso e predominante della tela e della stoffa. Entrare nella stanza di Ribuffo, con le sue pareti scrostate, non dipinte, è come entrare in punta di piedi in una stanza proibita, in cui sono esposti ricordi preziosi, di chi nell’andare via ha lasciato come dolce memoria. “Reliquie” di oggetti che entrano subito in empatia con il fruitore, facendo riaffiorare in lui quel sentimento infantile di tenerezza e di bisogno di protezione, accentuato anche dalle piccole dimensioni di alcune opere, e “facendo rivivere le ore e i luoghi di magia” .

Quella tutina, quel vestitino, non sono elementi di un racconto autobiografico, ma nella loro purezza divengono simboli di una perduta vita, che può riconoscere solo colui che l’ha perduta. Non c’è più il tempo dell’allegria dei panni stesi che sventolano all’aria diffondendo profumo di lavanda, non c’è più la morbidezza della stoffa che dava la sensazione di essere avvolti in un abbraccio. Sono lì immobili, scultorei, a fatica si distaccano dalla superficie della parete, della tela, imprigionati in uno spazio definito; o dalla cornice o dalla dimensione del supporto. Questi delimitano lo sguardo del fruitore e allo stesso tempo lo costringono a soffermarsi a riflettere sulle singole pieghe e increspature, e leggere gli antichi umori in loro nascosti. L’insegnamento della storia dell’arte di inserire nell’opera un frammento della realtà, nel nostro caso diventa un metodo per trasformare il sentimento nostalgico di un tempo perduto in una promessa. Per mantenere vivo quel sentimento infantile, ingenuo e puro, nell’animo dell’adulto. Le opere di Ribuffo sono un codice di segni che, attraverso il nuovo linguaggio, vanno incontro all’adulto e rinominano la realtà con i “nomi dell’infanzia”, “ridando anima ai sogni”: riscoprendo ciò che era rimasto nascosto dalle maschere del mondo degli obblighi e dei doveri.

“Scavare nell’infanzia, negli starti nascosti, perduti della vita, per riattivare quella promessa di felicità che è patrimonio di ogni essere umano senza dimenticare che questa possibile felicità e perennemente esposta ai venti della storia” (nota di E. Ganni, in op.cit.).


 

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