di Alice Chevalley di 5^As
3-2-2012
Sono sul “Treno della Memoria”, un treno diretto in Polonia, a Cracovia, per andare a visitare i campi nazisti di Auschwitz e Birkenau. Sono stata fortunata perché tra Passoni e Boselli c’erano solo venticinque posti e io sono stata scelta subito. Ho fatto quattro incontri preparatori prima di partire e anche qui in treno abbiamo discusso del concetto di propaganda ideologica. Il viaggio è veramente lungo (ci impiegheremo circa 26 ore). Siamo davvero tanti…Più di 700 da 7 diverse regioni! E più di 400 solo da Torino!
4-2-2012
Sono arrivata a Cracovia. Qui fa freddissimo!! Siamo sistemati in vari ostelli e il nostro è quello con più ospiti e anche il più spartano. Partendo per questo viaggio sapevo benissimo di dover portare con me oltre ai maglioni pesanti anche una bella dose di spirito d’adattamento. Ieri in treno ho fatto conoscenza con dei ragazzi della Sardegna. Sono stata molto colpita della loro risposta alla domanda su come mai fossero lì sul treno “Per fare una vacanza”. Mi ha stupita molto come cosa. Cioè, io credevo che la gente che voleva intraprendere questo viaggio lo facesse perché motivata, non come gita di piacere. Questi addirittura si definiscono fascisti. Non capisco. Oggi in ogni caso è stata una giornata libera e d’assestamento. Domani si va al ghetto.
5-2-1012
Dopo una mattinata libera oggi pomeriggio siamo andati a visitare il ghetto di Cracovia. Prima siamo stati portati ad una presentazione della città e della situazione ebraica all’interno di essa ai tempi della seconda guerra mondiale. Dopodiché abbiamo assistito ad una piccola rappresentazione teatrale organizzata da dei ragazzi come noi. Usciti dalla sala, con le audioguide abbiamo girato per il quartiere ebraico, ascoltando le ricostruzioni delle persone che ci abitavano, di come venivano deportati, la storia dell’unico non ebreo all’interno del ghetto che lavorava in una farmacia che divenne un punto di riferimento per tutti. Trovo orrendamente subdolo e malvagio da parte dei nazisti recintare quel terreno (abitato da inizialmente da 30000 polacchi in seguito evacuato per far posto a 16000 ebrei) con dei muri con forme che ricordano quelle delle tombe ebraiche, ad indicare “Non sopravviverete”. Commovente anche ritrovarsi nella piazza commemorativa, quella che ha come monumento 65 sedie vuote, una per ogni 1000 ebrei deportati. E sì, la lacrima mi è scesa. Una lacrima di rabbia verso quest’ingiustizia. La sera poi abbiamo assistito ad uno spettacolo teatrale. Un signore, accompagnato da un dj, ha letto delle parti di un processo realmente avvenuto. 18 testimonianze di sopravvissuti e 4 di imputati. È stato molto toccante. Soprattutto mi ha dato fastidio che i “carnefici” formulassero tutti la stessa risposta: “Eseguivo solo degli ordini”; “Non faceva parte delle mie competenze”; “Non sapevo”. Com’è possibile?! Non è fattibile un discorso del genere! Come faceva il gestore dei trasporti ferroviari a non sapere, a dire che non aveva mai controllato il contenuto di quei vagoni? Bugiardi fino alla fine. C’è poi un aneddoto che mi ha colpita particolarmente. Quello di un internato che tentando di scappare è stato catturato e costretto a girare per tutto il campo con un cartello al collo gridando “Urrà, sono tornato!”. L’annientamento della dignità dell’essere umano. O magari no. Perché credo che questa persona e chi assisteva sapesse che la dignità esisteva ancora, nonostante ciò che gli venisse fatto. E io provo estrema rabbia contro tutto questo! Urrà… credo che non userò più questa parola, legata ormai indissolubilmente a questo atto di cattiveria inaudita. E domani Auschwitz e Birkenau.
6-2-2012
Oggi ho visitato Auschwitz e Birkenau. Nonostante io fossi vestita di tutto punto e ci fossero solo –16 °C ho avuto un grande freddo, non mi sentivo le dita dei piedi e avevo i brividi. Ma credo che tutto ciò sia stato dato anche dalle emozioni provate. La sveglia è stata molto presto al mattino e con il pullman ci siamo recati ad Auschwitz. Avevamo una guida polacca che durante tutto il tragitto ci ha spiegato e raccontato le cose. Come faccio io a riportarle tutte? Sono davvero troppe. Come troppe sono le emozioni provate, mescolate. Entrare lì dentro e rendersi conto che neanche un secolo fa, meno, in quel luogo camminavano migliaia di persone, patendo incredibili sofferenze. Entrare nei blocchi e sapere di camminare su un pavimento dove questi dormivano morendo congelati, senza spazio, perché si c’era una stufa, ma era praticamente inutile. Vedere ciò che gli apparteneva. Tre tonnellate di capelli. Tre su sette ritrovate. E non sono neanche tutti. Non sono tutti perché alcuni sono andati persi, altri sono stati bruciati nei Magazzini Canada (magazzini interni ai campi chiamati così perché in quel periodo il Canada era il luogo dove cercare fortuna), altri ancora erano già stati utilizzati per fare tessuti e ricami da vendere ai tedeschi. Quante sono tre tonnellate di capelli? Una montagna! Io non so quanto pesino i miei, ma so che la quantità è davvero poca. E poi le scarpe. Quante scarpe! Troppe scarpe! È quello secondo me che ti da un senso di sterminio. Vedere una lunga sala con due grandi teche piene, piene zeppe di scarpe. Di adulti. Già, perché quelle dei bambini erano da un’altra parte, egualmente impressionanti. E anche di quello era restato poco, perché molte erano state rivendute. Che schifo. I tedeschi non volevano avere niente a che farei con gli ebrei, ma questo non gli creava alcuno scrupolo ad usare le loro cose, far giocare i loro bambini con i giocattoli di quelli morti nelle camere a gas. E poi gli occhiali, le protesi… Vale lo stesso discorso. Nel blocco della morte c’erano le celle degli osservati speciali, cioè quelli che avevano tentato di scappare o di “rubare” un po’ di cibo in più. Dopo aver subito un processo sommario della durata di circa due minuti, venivano internati. Potevano essere rinchiusi e lasciati morire di fame. O essere trattenuti prima della fucilazione. O per punizione rimanere giorni interi in celle “da in piedi”, cioè grandi come delle cabine telefoniche, condividendole con altri tre detenuti. Mai sedersi, mai riposare, mai uscire. Mai. Infine la camera a gas. È una semplice porta, che introduce a una semplice stanza vista. Se uno entra con la coscienza di ciò che è accaduto lì dentro, se prova ad immedesimarsi, gli si accappona la pelle. Anzi, più che immedesimandosi, utilizzando la propria coscienza, la consapevolezza di sapere ciò che avveniva. Perché se uno si dovesse immedesimare in un deportato, beh, sarebbe tutto sommato tranquillo, perché chi entrava non sapeva, non immaginava. Quando gli dicevano che da Auschwitz si usciva solo dal camino non ci poteva credere. E con le altre persone si sentiva rassicurato sentendosi dire di fare attenzione ai propri oggetti personali che avrebbe recuperato all’uscita dalle docce. E invece? E invece questa persona insieme ad altre circa 700 veniva spogliata nuda e rinchiusa in questa stanza dove veniva gettato il contenuto di circa 15 barattoli di veleno che a contatto col calore umano diventava gassoso e li uccideva. Chi dice che tutto sommato chi moriva nelle camere a gas era più fortunato degli altri, secondo me si sbaglia di grosso. Perché non è fortuna impiegarci 20 minuti a morire soffocato in mezzo ad altra gente che spintona e si schiaccia aggrappandosi a porte e arrampicandosi su per le colonne nel tentativo di respirare, nel disperato scalpitio del desiderio di vivere. Non è fortuna quella. Io ho pensato al fatto che se mi fossi trovata al loro posto mi sarei suicidata, sarei andata a toccare il filo spinato prendendo la scossa. Però sapere che non l’ha fatto quasi nessuno mi stupisce, non mi so ben dare una risposta. Perché non hanno deciso loro stessi di perdere la vita piuttosto che lasciarsi ammazzare da qualcuno o morire di stenti? Dopo che tutti erano morti nella camera a gas, altri ebrei dovevano raccogliere i loro cadaveri e portarli nella stanza dei forni crematori, bruciando tre corpi per volta a forno. Ad Auschwitz c’era solo un forno crematorio perché era un campo di concentramento, cioè dove si facevano i lavori forzati e si veniva uccisi, mentre a Birkenau (Auschwitz due) ce n’erano quattro perché quello era un campo di sterminio, dove si entrava solo per morire. In realtà esisteva anche un altro campo Auschwitz, il terzo, dove era stato internato Primo Levi, un campo di lavoro per la produzione di gomma, fatto saltare in aria dai nazisti durante la ritirata. Prima di andarcene ci è stato chiesto di scegliere tra le fotografie di alcuni deportati morti ad Auschwitz quello che ci colpiva di più e scrivere il suo nome su un foglio. Dopo un’attenta analisi io ho scelto Waklaw Kowalczyk, un giovane sulla ventina, con capelli biondi, occhi azzurri e aria fiera. Internato il 6 aprile del 1941 e morto il 24 agosto del 1942. più di un anno in quell’inferno. E viene in mente la frase incisa “Se Dio esiste dovrà chiedermi perdono”. Dopo pranzo siamo andati a visitare Birkenau. Lì è stato tutto un altro discorso. Non era come un museo, era solo uno spazio sconfinato attraversato da delle rotaie del treno, frustato dal vento, ghiacciato, circondato da filo spinato, vedette, fari e pieno di blocchi, molti dei quali fatti saltare in aria. E lì, vestitissimo, muori di freddo e non ce la fai neanche a camminare perché le tue dita dei piedi non rispondono più, non le senti più, vorresti solo andartene da quel freddo che ti entra nelle ossa, credi di non riuscire a camminare, ma cammini lo stesso, e mentre lo fai pensi che altra gente, migliaia di persone, camminavano dove cammini tu ora, con indosso solo un pigiama a righe e degli zoccoli olandesi. E morivano. Morivano in tanti per il freddo, cosa che alla fine facilitava il lavoro ai nazisti, li faceva risparmiare. E quando ti citano la frase “E il freddo non era freddo, e la fame non era fame” allora tu capisci esattamente cosa voglia dire, perché finché non sei là a viverlo, e neanche a pieno, non puoi avere l’idea di cosa voglia dire Inverno. Siamo entrati all’interno di un blocco e abbiamo avuto modo di vedere tutti i letti a castello ammassati, in una struttura di legno e mattoni, con una stufa che aveva dimensioni infime rispetto alla dimensione dell’ambiente e che anche se avesse scaldato qualcosa sarebbe stato totalmente inutile perché c’era uno spazio di venti centimetri tra le pareti e il soffitto che impediva l’isolamento termico dell’ambiente. Abbiamo visto gli altri forni crematori e le camere a gas, o meglio ciò che ne resta perché sono stati fatti saltare in aria. Con quattro di quelli bruciavano una media di 140.000 persone in pochi giorni. E se non c’era abbastanza posto non era un problema per loro, li accatastavano in un angolo e gli davano fuoco all’aria aperta. Dopo aver visitato i Magazzini Canada, dove venivano accumulati gli oggetti personali degli internati, lavati e rivenduti e aver visto delle parete piene di fotografie che gli appartenevano, è arrivato il momento più commovente. Tutti noi del Treno ci siamo ritrovati davanti al monumento commemorativo e il politico Michele Curto a deporre una corona a nome della città di Torino. Dopo un minuto di silenzio, tutti in fila abbiamo pronunciato i nomi delle persone che avevamo scelto tra le fotografie. Quando è toccato a me, ho detto “Waklaw Kowalczyk, io ti ricordo” e ho lasciato la mia impronta su un telo. L’ho trovato un gesto molto significativo. Il fatto è che con questo atto volevamo “estrapolare” il numero di matricola per far ritornare la persona un essere vivente con un qualcosa di cui nessuno dovrebbe mai privarla: un nome. Sulla strada del ritorno verso il pullman mi sono lasciata andare alle emozioni. Mentre facevo le visite cercavo di contenere le emozioni per immagazzinare più informazioni possibile, rimandando giù il “rospo” che sentivo in gola. Ma mentre camminavo vicino alle rotaie ho iniziato a riflettere su tutto ciò che avevo visto e provavo. Già, cosa stavo provando? Per i nazisti tanta rabbia, desiderio di far loro le stesse cose che hanno dovuto subire le loro vittime. Ma non avrebbe alcun senso. Ripagandoli con la loro stessa moneta ci avrebbe messi allo stesso livello di disumanità. Ho deciso quindi che io per i nazisti provo pena. Una pena sinceramente difficile da spiegare, come di qualcuno che “non ci arriva”, indi per cui non avrei fatto mai loro del male, poiché non degni di meritare neanche il disprezzo. Per le vittime invece è stato più difficile. Non trovavo la parola. Ho pensato “Vi voglio bene”, ma non è ciò che provavo perché era qualcosa di più. Ho pensato “Vi amo”, ma non era neanche questo, perché era qualcosa di diverso. A quel punto ho fatto solo una cosa. Ho aperto loro il mio cuore. Questa sera poi abbiamo guardato il film “L’onda”, che tratta di come nonostante siano passati degli anni, sia ancora possibile che si sviluppino dei regimi totalitari.
7-2-2012
L’altra notte è stata molto impegnativa. Appena chiudevo gli occhi, mi vedevo davanti tutte le scene che avevo visto durante il giorno: i blocchi, le strade gelate, la camera a gas. Ho dormito davvero malissimo. Questa mattina abbiamo fatto attività solo noi del gruppo O parlando delle nostre impressioni e di ciò che abbiamo provato ieri. Alcune persone dopo aver iniziato a parlare sono scoppiate a piangere dall’emozione, continuando a ripetere che tutto ciò non era giusto. Eppure un ragazzo ha detto che lui aveva altre aspettative, che credeva di provare emozioni che non ci sono state, quasi indifferente. Mi chiedo come sia possibile, ma credo che le emozioni e la rabbia svilupperanno in lui col tempo. Questo pomeriggio invece abbiamo assistito all’assemblea comune alla quale abbiamo partecipato tutti e 700, più organizzatori e Michele Curto. Oltre ad affrontare di nuovo il tema dei campi, ne abbiamo toccato un altro: il concetto della zona grigia. La zona grigia è quella parte di gente disinteressata. Chi fa finta di non vedere ciò che accade attorno a lui, perché non lo riguarda non toccandolo direttamente. Zona grigia è chi pensa “Io non c’entro, se la cavino loro”, e riguardo al problema non formula neanche un giudizio, se ne tiene fuori il più possibile, evita attentamente di farsi anche solo sfiorare. È facilissimo far parte della zona grigia, tutti lo siamo riguardo a qualcosa, magari non seguendo i telegiornali oppure concentrandoci su certe tematiche piuttosto che su altre. È però anche facile uscirne. Sono i piccoli gesti a fare la differenza. Per quanto riguarda il periodo delle deportazioni, anche solo gettare una pagnotta all’interno di un vagone o nascondere delle lime all’interno di esso voleva già dire qualcosa. Anche io voglio uscire dalla zona grigia. Per quanto riguarda ciò che ho appreso in questi giorni, ho intenzione di raccontare a tutti ciò che ora so, perché non cento ma mille, milioni, miliardi di persone siano consapevoli di ciò che è avvenuto, e ho intenzione di impegnarmi raccontandolo ai miei figli e ai miei nipoti, facendomi promettere che loro facciano lo stesso, in modo tale che questo non vada perso nel tempo.
8-2-2012
Di ritorno a Torino. È stata un’esperienza davvero importante e formativa per me. Credo che porterò sempre nel cuore le cose che ho imparato, e ciò mi ha resa sicuramente più matura e consapevole. Ho imparato che è davvero fondamentale rispettare i diritti altrui, che ogni essere merita di vivere, specialmente non bisogna punire gli innocenti. Ho imparato che lo spirito interiore è più importante di qualunque altra cosa, perché ti tiene su quando tutto attorno a te crolla. Ho smania di tornare a Torino per raccontare tutto ciò che ho visto e provato, anche se sarà difficile, come è stato difficile scrivere queste pagine perché i sentimenti sono una cosa a volte molto pesante da sostenere, soffocanti, e spesso mi sono dovuta interrompere perché mi si bloccava il respiro e scendevano le lacrime. Era necessario che io scrivessi tutto ciò, perché era il fine primo di questo viaggio: NON DIMENTICARE. E io non dimenticherò. Promesso.
Brava Alice! Il tuo resoconto é pieno di sinceritá e sgomento, e invita a ricordare. Di ció che é accaduto lí, di ció di cui gli uomini sono stati capaci, nella follia e nella disperazione, non si apprende mai abbastanza. E’ importante non dimenticare, e commuoversi e provare dolore per Waklaw coi suoi occhi azzurri che si sono chiusi troppo presto. E’ importante perché non avvenga ancora, e per sapere quello che possiamo e non dobbiamo fare. Grazie.