La civiltà camuna: un esempio di preistoria

Capodiponte – Parco del Naquane

 Camuni_AndreaLucaWilly

Camuni_Giulia

DESTINATARI: allievi classe 1^ H

COORDINATRICE: prof.ssa Vilma Bicego

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  • La scelta dell’argomento

Avendo terminato lo studio della preistoria sul manuale in adozione, ho deciso di servirmi della storia del popolo camuno sia come ripasso degli argomenti studiati sia come ricostruzione locale di quei fenomeni esaminati per l’umanità. Il lunghissimo periodo della preistoria spesso finisce per divenire oggetto di fantasia o fantascienza, non è semplice per gli studenti nel poco tempo a disposizione comprendere la portata storica e la dimensione temporale di quei fatti. Il poter esaminare il percorso limitandolo ad un’area piccola e per giunta poco distante da loro, il poter poi vedere direttamente le tracce lasciate millenni fa dai nostri antenati, crea un ponte tra il passato ed il presente ed aiuta a comprendere non solo quel particolare momento, bensì anche il procedimento di ricostruzione storica.

Avendo anche da poco esaminato la struttura testuale, mi è parso piacevole far realizzare una storia illustrata che tenesse conto da una parte degli aspetti storici e dall’altra desse sfogo alla fantasia di ogni singolo ragazzo. Ecco dunque nata la consegna data agli studenti ad inizio percorso: Realizzate una breve storia fantastica sul popolo camuno, partendo dalle vostre conoscenze generali sulla preistoria e dall’analisi delle principali incisioni rupestri camune. La storia dovrà contenere gli elementi essenziali di un testo narrativo e per illustrarla dovrete servirvi delle incisioni rupestri.

Come esemplificazione dell’attività svolta si allega

–       Quando non tutte le cose avevano un nome

–       La storia di Major creata ed illustrata da Giulia POLTRONIERI

–       La nuova alba creata ed illustrata dal gruppo formato da Andrea DEPOLO, William INDOLFI, Luca VINASSA

                                                                               Vilma Bicego

 

Quando non tutte le cose avevano un nome

Mel osservava le stelle luminose del firmamento, chiedendosi cosa gli spiriti avessero voluto comunicare agli uomini, intrappolando le lucciole nel liquido cielo, perché era risaputo che il cielo fosse fatto di acqua trattenuta lassù dagli spiriti che, quando si distraevano, cadeva sotto forma di pioggia, per benedire gli uomini.

Mel o “Acqua di Cielo” si chiamava così per via dei suoi occhi grigi come la tempesta, occhi vivaci e fortunati, tanto amati dalla sciamana del clan di cacciatori-raccoglitori al quale apparteneva. Il clan era silenzioso, la maggior parte dei componenti dormiva sotto ripari di fronde o si stringeva intorno ai fuochi che disseminavano il campo. Il loro era un clan piccolo, trenta in tutto contando anche i bambini e la loro sciamana, una donna di quasi mille anni ormai, ma era piuttosto considerato e rispettato dai clan vicini poiché ne faceva parte un domatore della pietra, Nicodemus o “Corno di Cervo” che, anche alla luce del fuoco, continuava con il suo ritmico movimento a intaccare quella particolare pietra che chiamavano Dono degli Spiriti, creando piccole schegge taglienti che erano la risposta ai loro semplici bisogni.

Presto l’accampamento si sarebbe spostato verso le sponde del grande lago che si trovava nei luoghi più insidiosi della Val Camonica, per la festa annuale in cui si riunivano tutti i clan. Era un’occasione importante, ci si scambiavano pensieri, parole e doni, si comunicavano le nuove nascite e le nuove morti, si narravano le storie dei cacciatori più valenti, si suonava e si ballava davanti ai fuochi, si praticava la Danza che porta la Vita e, spesso, qualcuno cambiava clan per seguire la persona che gli aveva rubato il respiro. Forse anche lei avrebbe fatto la Danza che porta la Vita, ormai aveva quasi ventitré anni e non aveva mai partorito. Non che questo avesse molta importanza, i bimbi venuti alla luce appartenevano al clan ed erano accuditi e seguiti da tutti, assecondando le loro capacità e inclinazioni. Questo li rendeva una grande famiglia, perché, in fondo, erano tutti figli di Madre Terra.

L’alba arrivò con la sua luce più tenue portando, oltre al risveglio, il più dolce canto degli uccelli. I membri del clan lentamente e senza fretta, si avviarono alle loro occupazioni, i bambini più grandi a prendere l’acqua al ruscello poco distante con vesciche di cervo e cinghiale, i più piccini a ravvivare il fuoco con legna lasciata ad asciugare durante la notte, le donne distribuivano la carne avanzata dal pasto serale e bacche agli uomini che si apprestavano ad andare a caccia e agli altri membri del gruppo. Avuta la sua razione di cibo, Nicodemus scaldò, in una grande conchiglia posta su una pietra rovente, della resina di quercia mista a cera che sarebbe servita per fissare le schegge di pietra a lunghe asticciole di betulla già lavorate che poi, con l’aggiunta di altra resina e penne di uccello, sarebbero divenute frecce. Sperava, un giorno, di diventare brava a domare la pietra come Nicodemus, anche se per ora si era limitata a osservare i suoi movimenti e a fare delle prove sugli scarti della lavorazione poiché quel particolare tipo di pietra, Dono degli Spiriti, veniva da molto lontano ed era considerata estremamente preziosa. Le donne cantavano mentre lavoravano delle pelli di cervo, di cinghiale e d’orso, alcune raschiavano via i brandelli di carne rimasti, altre le ingrassavano e le affumicavano, rendendole così impermeabili e resistenti all’usura. Forse avrebbe dovuto raggiungerle e confezionarsi un paio di gambali nuovi poiché i suoi erano ormai troppo piccoli e consumati.

Gli uomini a caccia, la brezza profumata e il sole caldo che scioglieva la neve, le grida gioiose dei bambini. Un pensiero che prende forma e un’idea che si fa parola. Felicità.

D.P.       Classe 1^ H

 

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