a cura della Prof.ssa Bicego
Il progetto d’Istituto “Maledetta sia la guerra” coinvolge gli allievi della 2^ H, classe 2.0 e la loro docente di lettere. Dopo la visione del film di Ermanno Olmi, si è proceduto ad un lavoro di analisi sia dedicato al linguaggio cinematografico che ai contenuti. L’attività, di cui si presenta un testo di sintesi, ha dato avvio alla ricerca storica legata al progetto sulla Grande Guerra.
Un film che racconta una notte e più vite, perse.
La guerra, la disperazione, la condizione dei soldati, trattati come animali pronti per il macello.
Tutto questo, espresso non tanto in modo realistico ma come una sorta di ricordo, con lunghi momenti di silenzio e di riflessione, anche per lo spettatore, è “Torneranno i prati”, del regista Ermanno Olmi.
Grazie alla fotografia e al taglio cinematografico, sempre più coinvolgente, lo spettatore è portato a sentirsi parte di questa storia, seppur breve e a provare il sentimento generale delle truppe nell’avamposto.
Asiago, 1917. Una notte. Ecco quanto durano le vicende narrate in questo film: una notte.
Tutti, in quella trincea, sono esausti, stanchi di tutto ciò che hanno visto accadere, obbligati ad andare fuori a morire o rimanere lì, sotto la neve, coperti, ma in preda ad allucinazioni, insonnia, febbre. In preda ai loro pensieri. Alcuni reggono questo peso, altri no, fino ad arrivare a gesti estremi, come lo spararsi, per avere una fine “migliore”.
Intanto, fuori, le esplosioni, che spezzano la calma della montagna, coperta da metri di neve e distruggono le poche cose vicino ad esse.
Dentro, la paura. La paura della morte, per via di rumori e di preoccupazioni sempre più forti; rumori che alcuni conoscono fin troppo bene, dopo aver vissuto in miniera.
Il terrore di morire all’interno della trincea, senza scampo, perché forse i “nemici” stanno arrivando sotto l’avamposto, per farlo saltare in aria.
La disperazione di chi non riesce più a sopportare gli ordini e la guerra… e le nuove esplosioni, i silenzi e le altre esplosioni, appena fuori trincea.
In questo film il regista propone i temi “classici” della guerra nel cinema, ma lo fa in modo differente.
La sofferenza, la solitudine, il dolore e l’orrore della guerra, la condizione dei soldati, la disperazione e addirittura l’abbandono, la sconfitta (che sia volontaria, come chi diventa un disertore e lascia le armi o che non lo sia, come chi va incontro alla morte, perchè lo deve fare) questi i temi trattati.
Tutto questo è espresso non in un modo, per così dire, canonico ma in modo profondamente differente, tramite pochi avvenimenti, carichi di significato e di emozioni, che fanno ragionare lo spettatore e lo fanno entrare tra quelle poche persone che sono lì per una malaugurata sorte.
Esprime inoltre temi come l’abbandono, la disperazione, la solitudine tramite carrellate lente e inquadrature della montagna o tramite i silenzi e i comportamenti dei protagonisti: come certe scene in cui alcuni soldati non parlano, fissano il vuoto, con lo sguardo fisso o come quando uno di essi viene svegliato da un piccolo topo vicino alla branda e finisce per trovare in lui un minimo di vita e di compagnia.
In quanto al film in sè (quindi fotografia, sceneggiatura, scenografia, luci e le scelte varie del regista ) la qualità è ottima.
Olmi riesce a dirigere questo lungometraggio in maniera eccelsa, nonostante una narrazione piuttosto lenta, così come le inquadrature, spesso ferme e le poche carrellate, tutte (o quasi) orizzontali e molto lente, nonostante il poco spazio che devono “coprire”.
Una cosa che ho notato e che ovviamente è voluta è la scelta del regista, nel corso del film, di passare gradualmente da inquadrature molto larghe, come panoramiche di un paesaggio fino ad arrivare, verso la fine del film, a primi o primissimi piani, per ottenere una sorta di climax ascendente anche nelle immagini aumentando in tal modo il coinvolgimento.
Ovviamente un altro pregio della regia, oltre al pochissimo utilizzo di modifiche in post produzione, se non per una minima correzione dei colori o per rendere le luci più fredde, è la scelta del taglio cinematografico, che rende il prodotto più godibile e meno pesante (cosa che poteva accadere visto i lunghi tempi del film).
Oltre a questo, grazie al backstage si sono comprese molte cose, sopratutto sulla scenografia e su come è stata realizzata (quasi totalmente in legno) e su come è stata utilizzata per rendere al meglio la scena.
In più vengono presentati alcuni “trucchi”, come i faretti esterni posti vicino alle feritoie e ai “buchi” della trincea per la luce nelle riprese interne o come venivano realizzate le mine.
Nonostante non condivida appieno la scelta di inserire il backstage prima del film, poiché diminuisce la “magia”, se così si può dire, della pellicola, trovo che sia stato molto utile per la parte della realizzazione tecnica, anche per vedere se ciò che voleva trasmettere il regista viene rispettato e percepito dal pubblico, come in una scena dove per far capire la mancanza di forza dei militari e la sofferenza, richiede un certo comportamento da parte dell’attore e un certo tono di voce, discendente, quasi soffocato dal pianto, come se avesse un nodo in gola.
Da come si può vedere Ermanno Olmi in questo film sembra averci messo l’anima (e i risultati si vedono) e si nota che sente il bisogno di raccontare questa storia, a lui vicina, per via del padre.
Assolutamente da vedere e piuttosto bello. Forse non adatto a tutti, ma basta un minimo impegno per comprenderlo e apprezzarlo. Da vedere anche solo per accrescere le proprie conoscenze e la propria cultura. Secondo me, merita anche solo per la regia e la fotografia, davvero ottime. (Luca)