Recensione di Ars Captiva Groove 2013
a cura di Marta OBERTO, Francesco RAIMONDI, Greta RUBINETTI – 1 ^D
Liceo Classico C.Cavour
Colori, luci, suoni. Ed il jazz a fare da primadonna. Queste le parole d’ordine dell’edizione
2013 di Ars Captiva, l’evento biennale d’arte che ospita le opere degli studenti dell’Accademia Albertina e dei licei artistici torinesi ed il cui tema quest’anno è il groove, «quella cellula dinamica – spiega Marco Basso, ideatore della mostra – che caratterizza il movimento e l’andamento ciclico del blues, del soul, del jazz e che ne scandisce il ritmo».
A fare da location all’evento è il Museo Regionale di Scienze Naturali, ubicato nell’edificio già sede dell’Ospedale San Giovanni Battista, sorto alla fine del XVII secolo ad opera di Amedeo di Castellamonte e completato da illustri architetti.
Le sue eleganti sale incorniciano ottimamente le installazioni luminose, le sculture, gli schermi, le fotografie: quell’esplosione di idee e colori, insomma, che fa a pugni col clima uggioso di sabato 27 aprile, data della “visita suonata” alla mostra.
Evento a cui noi, ragazzi del Cavour allievi della professoressa Elisabetta Tolosano, abbiamo avuto il piacere di assistere e dal quale siamo stati positivamente colpiti.
Ciò che salta subito all’occhio salendo i gradini che portano alla sala principale di Ars Captiva Groove sono le opere che arricchiscono la scalinata stessa e che accompagnano lo spettatore, prendendolo delicatamente per mano.
Caratteristica insolita, se si pensa che gran parte degli allestimenti tradizionali prevedono la disposizione sequenziale delle opere attraverso le sale.
Spiega infatti Basso: «Io penso che tutto ciò che è arte debba essere linguaggio e pertanto necessiti, per funzionare, di due interlocutori. L’idea di fondo di Ars Captiva è appunto quella di far capire ai ragazzi il bisogno di dialogo all’interno dell’arte, anche in rapporto alla musica.
Del resto, per l’allestimento in sé, la mostra fa dialogare le opere, che non sono disposte in una sequenza preordinata, ma sono mescolate come se dovessero parlare l’una con l’altra».
Appunto “dialogo” , insieme con “improvvisazione”, è il filo conduttore della performance musicale cui abbiamo potuto assistere sabato pomeriggio, accompagnati nella nostra visita dal suono malinconico e graffiante della tromba e del sax di Ivan Bert e Paolo Celoria.
I due, ispirandosi alle opere della mostra, hanno improvvisato un interessante scambio di battute all’insegna del jazz, spostandosi di volta in volta attraverso le due sale di Ars Captiva fino a posizionarsi nel cuore della mostra (dov’era collocato un progetto in vetro tridimensionale di una scultura firmata Paolo Lizzi) per essere letteralmente dipinti da quattro studenti dell’istituto Passoni, coordinati dalla professoressa Roberta Testa. Chiediamo ai musicisti cosa abbiano voluto comunicare al pubblico.
«È più facile spiegarlo con gli strumenti che a parole. Abbiamo pensato che ogni stanza, ogni geometria, ogni architettura abbia un suo suono, e ci siamo detti “cerchiamo di suonare da una stanza all’altra e di avvicinarci pian piano sempre più come un elastico, sino a duettare fianco a fianco”.
Abbiamo proceduto come l’artista che, nel comporre un’opera, partendo da un’idea e dai mezzi di cui dispone, si avvicina sempre più ad un punto, un centro, che è il compromesso tra questi due elementi.
I ragazzi (del Passoni, n.d.r.) non lo sanno, ma hanno dipinto le nostre note: tutti voi, infatti, magari un po’ inconsciamente e senza prestarvi particolare attenzione, avete sentito quello che abbiamo suonato e di fatto i colori con cui loro ci hanno dipinti sono stati influenzati dalla nostra performance».
Ma davvero il jazz è un genere alla portata di tutti, ed in particolare dei ragazzi? «Assolutamente sì: – dice Celoria, il più giovane fra i due – se arrivasse un alieno e chiedesse che musica si suona sulla Terra, l’unica risposta possibile sarebbe il jazz, perché è un genere che lascia tutta la libertà del mondo nonostante dietro ci sia uno studio armonico pazzesco; è ovvio che ai ragazzi di oggi possa sembrare una musica “vecchia”, anche se avvicinarsi ad essa con i mezzi della Rete è semplicissimo».
«Il modo per fare appassionare i ragazzi al jazz – aggiunge Bert – è far leggere loro le biografie degli artisti, ognuna delle quali è un film.
I primi jazzisti erano neri, comunisti, omosessuali, drogati, ebrei: emarginati, in una parola. Ma al contempo erano geni invidiati da tutti i musicisti europei.
Grandissimi artisti internazionali, considerati dei “negri” nel loro Paese».
È stata anche questa, infatti, la strada seguita dagli organizzatori dell’evento e dai professori dei ragazzi coinvolti per introdurre e far appassionare al tema della quarta edizione di Ars Captiva i giovani artisti.
I quali, peraltro, hanno saputo cogliere nel migliore dei modi l’opportunità loro offerta, sprigionando la loro vena creativa e sperimentando svariate tecniche di realizzazione.
Lo scopo dell’evento è stato dunque centrato in pieno.
Ci informa, infatti, ancora Marco Basso: «La finalità della mostra è innanzi tutto quella di dare un’opportunità ai ragazzi di uscire fuori dalla scuola, di far vedere le loro abilità ad un pubblico che non sia quello dei professori, e anche di far vedere alla città che ci sono eccellenze straordinarie già tra i giovanissimi, ma anche fra i docenti torinesi».
L’appuntamento dunque è per la prossima edizione che, ne siamo sicuri, riuscirà ancora una volta a stupirci.